Mariapia Veladiano ha da poco pubblicato con Einaudi La vita accanto, in cui racconta la storia di Rebecca, penalizzata dalla sua bruttezza, e delle persone che le vivono accanto. Con lei abbiamo parlato di amore, scrittura e cecità.
L.& B.: Vorrei partire dal finale, se non ti dispiace. Mi sembra molto misurato. Non siamo di fronte ad una tragedia, ma neanche di fronte ad un finale hollywoodiano. È un finale che si è scritto da solo o su cui ti sei dovuta imporre?
M. V.: Si è presentato. Davvero non c’è mai niente di programmato nella mia scrittura. Mi capita che in qualche modo la storia si muova da sola e si componga alla fine. Ma la conclusione della storia di Rebecca dice qualcosa in cui io credo molto, e cioè che ogni vita è possibile, che il bene e il male non stanno divisi qui sulla terra e che si vive spesso così, abitando una felicità leggera.
L.& B.: Mentre scrivevi hai avuto la tentazione di fornire al lettore descrizioni fisiche più dettagliate su questa bambina/ragazza?
M. V.: No, perché non era importante. L’esser brutta di Rebecca è la traduzione letteraria del non essere amati. Lei è brutta, ma soprattutto non è accettata e amata. E questo è fondamentale. E’ un’esperienza comune. Chi di noi non ha vissuto a volte l’esperienza tremenda di non sentirsi accolto? Oppure la paura di non esserlo, che è lo stesso. E ci si sente brutti e ancora brutti e non c’è niente che possa restituirci un’immagine bella di noi se non lo guardo di affetto, d’amore, di un’altra persona.
L.& B.: La prigione in cui ogni personaggio del romanzo si trova a vivere sembra che comporti una cecità nei confronti del mondo esterno e delle altre persone. In qualche modo solo Lucilla e la signora De Lellis vedono e intuiscono gli altri e dunque anche Rebecca. È un genere di cecità piuttosto comune oggi?
M. V.: Anche la tata Maddalena la vede, è forse la prima. Poi Lucilla, poi la signora De Lellis. Sono donne e spesso sono proprio le donne a vedere e a tenere, così, il tessuto della vita.
Oggi c’è la tentazione grande di non vedere. C’è una vera devozione verso la vita perfetta: bellezza, ricchezza, successo, salute, tutto al massimo. E’ evidente che si deve cercare e amare la vita buona: la bellezza è importantissima, in ogni tempo la si è amata e ricercata. La cura del corpo altrettanto positiva, è rispetto verso di sé. Ma è la misura a mancare, oggi. Il canone estetico è strettissimo, definisce l’altezza, il peso, il vestito, l’accessorio, l’età. Tutto. La ricchezza deve essere tanta. La salute vede l’invecchiamento come il mostro da esorcizzare. E’ un vivere che non vede tutta la vita, ma una sua parte ben selezionata e, soprattutto, che esclude un mare di persone: i poveri, i malati, chi non rientra nel gioco della corsa a questa perfezione della forma e dell’apparire.
L.& B.: La De Lellis da a Rebecca la possibilità di ritrovare un passato da cui poi proiettarsi in avanti, le consente di costruirsi un’immagine interiore di sé. Si può andare avanti senza il passato, positivo o meno, che un genitore tramanda al proprio figlio?
M. V.: Credo che sia difficile. La letteratura è piena di questo cercare nel passato la traccia del proprio esistere. Per Rebecca era importantissimo: come si può vivere nel dubbio tremendo di non essere mai stati amati?
L.& B.: Quanto credi che sia possibile per ognuno di noi uscire dalla propria prigione personale, per amore di se stessi e dell’altro?
M. V.: Ma è certamente possibile, e lo si fa in compagnia, difficilmente da soli. Si deve avere la fortuna di trovare chi ci vede e ci riconosce e in questo modo ci autorizza ad esistere come persona che vale, quale che sia il nostro valore economico o estetico o sociale. Ma questo è anche un impegno per noi: ad essere per l’altro lo sguardo capace di liberarlo. E può succedere proprio qualcosa di cui parla il vangelo e che è un’esperienza meravigliosa: mentre usciamo da noi stessi per vedere e riconoscere l’altro, per occuparci di lui, proprio allora ci ritroviamo. I talenti dobbiamo scoprirli reciprocamente.
L.& B.: In un mondo di tanti scrittori e pochi lettori come quello italiano, perché hai accettato il rischio di vedere la tua voce perdersi tra i soliti mille esordi dell’anno?
M. V.: Perché un po’ speravo che non si sarebbe persa…
L.& B.: La tua scrittura mi sembra cesellata, controllata e ricontrollata più volte. Il lavoro di un artigiano, insomma. Quanto conta nello scrivere prendersi il tempo per fare autocritica?
M. V.: Un libro è fatto di storia e di scrittura. Capita spesso di leggere libri “sbilanciati” sul piano della storia ma con una scrittura frettolosa. Lo dico sempre: amo le scritture controllate e che non si impongono. Non mi piacciono le scritture ossessive. Amo Biamonti, che ha scritto pochissimo e la sua prosa è come una poesia. La scrittura ha un canto, un suo canto che ci deve riuscire famigliare, come un canto di culla, che ci accompagna e non si impone, ma si fa riconoscere. Non so se ci sono riuscita, ma quello cerco.
L.& B.: Oggi uno scrittore impegnato politicamente e socialmente, come Licia Troisi che ho recentemente intervistato, ha senso o ha invece ragione la Ginzburg quando dice che chi scrive deve fare suo un certo disimpegno, per poter continuare ad osservare?
M. V.: Uno scrittore, come chiunque altro, può essere impegnato socialmente e politicamente. E’ importante che possa spendere liberamente il proprio peso culturale, la propria notorietà. Credo però che la narrativa non dovrebbe mai essere intenzionalmente militante. Lo è implicitamente quasi sempre, quando riprende empaticamente una realtà, quando sente il disagio e l’ingiustizia e la mette in una storia. Ma l’intenzione militante nella scrittura mi sembra una struttura, come dire, estranea.
L.& B.: Su Libri e Bit parliamo molto di libri digitali, delle nuove frontiere della lettura e della scrittura. Credi che gli eBook influiranno sulle abitudini di lettura dei giovani? In che modo?
M. V.: Ma non lo so proprio prevedere. I ragazzi che ho a scuola non leggono ancora eBook, e poco anche i libri tradizionali in verità.
L.& B.: Lavorare ad un eBook piuttosto che ad un libro di carta spingerà anche gli scrittori a modificare le proprie tecniche narrative?
M. V.: Forse quelli molto molto attenti al mercato, sì.